Ho ancora le lacrime agli occhi e un nodo alla gola che è un
misto di felicità e nostalgia… Juan, il nostro caro Juan del San Pedro è partito. L’ho accompagnato all’aeroporto per prendere l’aereo
che lo riporterà alla sua amata Lisbona…dopo 9 anni di detenzione
al San Pedro.
Poco più di un mese fa, alle 21,00 una telefonata di Miguel,
il nostro cuidador del Kinder “Barbara!!! Juan sta uscendo adesso! Lo hanno
chiamato alla porta!!!”
“Miguel, corri da lui e digli che arrivo in 10 minuti!!!”
Prendo
una giacca qualsiasi, mi metto le scarpe di corsa, mi infilo il cappello di
lana e già nel vicolo di casa mi
accorgo che ho il pigiama (machissenefrega!) e la sciarpa che penzola strisciando
sulla strada e facendomi quasi inciampare, mi fiondo a prendere un taxi… Non posso pensare che dopo 9
anni di carcere non ci sia nessuno ad aspettarlo fuori dalla porta di quelle 4
mura…
Il poliziotto di guardia si accende una sigaretta e mi guarda divertito dalla mia mise
casalinga/notturna… ed ecco che spunta dalla porta Juan… un pulcino rinsecchito, intirizzito dal freddo, senza neanche una borsa con le poche
cose che solitamente i detenuti custodiscono gelosamente per il momento dell’uscita…
solo le sue mani in tasca e uno sguardo stranito dal traffico notturno… un
sorriso timido e stanco. Camminiamo per arrivare a casa e chiacchieriamo tanto… la
coincidenza vuole che a casa ho ospite una amica portoghese con il suo ragazzo,
di passaggio a La Paz. Juan è timido e quasi “paralizzato” mentre gli verso un
bicchiere di vino… Rita comincia a parlargli in portoghese e il nodo piano piano
si comincia a sciogliere…
La burocrazia per il rimpatrio è lunga e il console del
Portogallo mi dice che ci vorrà almeno un mese per preparare tutto e mettere d’accordo
l’ambasciata portoghese a Lima e l’ufficio dell’immigrazione per preparare il
passaporto speciale d’emergenza. Parlo con Juan, gli ricordo del nostro
progetto nella selva e lui immediatamente mi dice “Portami a Caranavi al
terreno, non voglio stare a La Paz! Voglio fare qualcosa di utile in questo
mese di attesa”. Detto, fatto!
Come descrivere questo mese di libertà così intenso? Il viaggio
a Caranavi, la convivenza nella selva, le sere a chiacchierare sotto le stelle
e a fare considerazioni sul senso della vita e del futuro, il lavoro duro e
instancabile di Juan con la terra e per la costruzione della cucina da campo,
le risate folli per cose assolutamente normalissime (ma specialissime dopo 9
anni di isolamento…), le discussioni e le alzate di testa, gli abbracci e le
lacrime quando i ricordi del carcere si fanno cupi e dolorosi e i desideri e le paure per il futuro si
agitano troppo nel profondo… il gatto che scappa mentre lo portiamo dal
veterinario e si rifugia nell’unica gioielleria di Caranavi… e la padrona del
negozio che non crede alle nostre richieste di cercarlo dentro al negozio, perché
crede che siamo dei ladri che si sono inventati la scusa del gatto per entrare
a rubare (certo… io e due tipi loschi tutti sporchi, puzzolenti e arruffati… ma cosa pensavamo??? Ahahahahaha!!!
Una situazione da morire dalle risate!!! Avrei voluto avere una telecamera!!!!).
Una sera, dopo cena, sotto una stupenda, incredibile coperta di
stelle e la luna piena, ci fumiamo
la nostra solita sigaretta del “pre-buona
notte” sulla panchina della casetta di legno dove dormono Juan e Luis (un
ragazzo in terapia per alcolismo alla comunità di Alto Beni della Comunità Papa
Giovanni XXIII, che ha fatto una esperienza di scambio con il nostro progetto
per 15 giorni) chiedo a Juan: “Cosa pensi di questo posto Juan? Credi sia
adeguato per chi esce dal carcere? L’opinione di un ex detenuto è molto
importante e credo sia fondamentale per capire i passi da intraprendere… la tua
opinione mi serve perché vorrei capire se stiamo andando nella direzione giusta,
se tutto questo lavoro e questi sforzi ci stiano portando verso una meta utile …”
“Barbara, questo posto è meraviglioso,
e nonostante la difficoltà ambientale, i mosquitos, il caldo e il lavoro duro,
personalmente stare qua mi sta facendo vedere e capire quali sono le cose
importanti nella vita. Il lavoro duro serve molto per scaricare i nervi e
capire i miei limiti e le mie risorse fisiche e anche le mie riserve di di
pazienza e di umiltà. Questa natura così totale mi fa sentire un senso di
libertà, e un sentimento di «gratitudine» e rispetto verso la Terra, che non
avevo mai provato prima. Anche vivere con te e i volontari, e le persone che
passano di qui per il progetto, mi sta facendo guardare la vita in tutta un’altra
prospettiva da quella che anche solo ieri avevo pensato…questo posto ha delle potenzialità molto grandi con
gli ex detenuti! Certo, non va bene per tutti, ma per molte persone del San Pedro,
sarebbe una esperienza molto utile e importante per riprendere in mano la vita
e guardare al futuro in una maniera differente.”
L’emozione per queste parole
dette di getto è grande…sono commossa e anche un po’ rassicurata; a volte mi
chiedo se tutto questo lavoro e questi passi fatti con grande impegno e fatica
siano nella direzione giusta… e Juan
con le sue considerazioni mi ha dato un bel feed bak positivo!
Parliamo tanto nelle notti a Caranavi: i 9 anni al San Pedro
sono stati molto duri, in tanti anni non ha ricevuto nemmeno una visita. Ha
passato 9 anni senza mai vedere nessun conoscente. Le uniche persone che si
ricordavano di lui eravamo io e i volontari di Laboratorio Solidale. Cazzo, 9
anni senza relazioni umane significative! Un isolamento sociale straziante. Non
riesco ad immaginare tanta deprivazione emozionale/affettiva. Juan mi racconta
del suo dolore, del suo auto-isolamento, del suo consumo di sostanze
(soprattutto la pasta base) per sopportare la solitudine e il senso di colpa,
ma anche della sua forza e della sua grande fede. Entrare in carcere in Bolivia
a 30 anni appena compiuti e sapere di non uscirne almeno per 8 anni che
diventano quasi 9… vuol dire
decidere di morire o di sopravvivere nel senso più assoluto del termine. E mi
racconta dei 6 anni passati in “Sin Sección”, in stanzoni dove decine di
detenuti sono ammassati e dormono rannicchiati alla male-peggio, dove non
riesci a prendere sonno per il prurito causato dalle pulci, per il puzzo di
vomito o di diarrea di chi sta male (non c’era il bagno…) e poi la decisione di
andare a dormire negli androni e i vicoli all’aperto del carcere, perché lì,
nonostante il freddo degli inverni a 4000 metri di altezza, almeno si era all’aria
aperta e se avevi una coperta riuscivi a prendere sonno… Juan però ha sempre
avuto il rispetto dei detenuti, perché era uno che si faceva gli affari suoi,
che sapeva lavorare e guadagnarsi da vivere e in carcere ha imparato a fare di
tutto: lavori da idraulico, elettricista, muratore, e ha messo in pratica le sue competenze come falegname e artigiano.
Il capitolo più doloroso dei suoi racconti è quello relativo alla relazione con
suo figlio… un bimbo che ha lasciato a 5 anni e che ora ha 14 anni: 9 anni in cui
lui come padre è scomparso e che suo figlio ha registrato come un abbandono…
Ascolto i suoi racconti, guardo le sue espressioni, i suoi occhi profondi, e sento dentro tutto il suo desiderio di
ricominciare e tutta la sua paura di non farcela e non posso fare a meno di
commuovermi…
Lo metto in guardia e un po’ duramente gli faccio presente che
deve aspettarsi di tutto da suo figlio, dalla rabbia al rifiuto, all’aggressività… deve
essere pronto a tutto, ma anche risoluto nell’essere talmente umile da
accettare tutto quello che gli arriverà, e talmente determinato e forte da
ricostruire pezzettino a pezzettino la sua relazione con suo figlio, partendo prima
di tutto da sé stesso. Primo passo “Assumersi la responsabilità delle sue
azioni”, secondo passo “Perdonarsi”, terzo passo “Ripartire da zero e
cominciare una vita nuova” per sé stesso,
per poi ricostruire un rapporto nuovo con suo figlio. Una sera Juan mi
dice: “Oggi mentre ero al fiume a sciacquare le scarpe, pensavo e pensavo e
pensavo, pensavo che avevo una vita bella e che non ho saputo apprezzarla, avevo
tutto quello che può rendere felice: una donna speciale e fantastica che amavo e che mi amava, un
figlio adorato, un buon lavoro, la casa che era il nostro nido, ma cosa cazzo
cercavo facendo il narcotrafficante???” mi guarda come a chiedermi una risposta; lo
guardo con gli occhi che mi si riempiono di lacrime e non riesco a parlare – ci
abbracciamo forte forte: “Juan! Piano piano ti stai ritrovando! Sono tanto
felice perché questi 9 anni non sono stati buttati al vento, ma come vedi, ti
hanno fatto capire tante cose! Evidentemente ti serviva tutto questo per capire
quello che non vuoi e sentire quello che è veramente importante per
te! Adesso, e solo adesso sei pronto per vivere la tua vita fratello mio!”
Il 5 marzo Juan ha
compiuto 39 anni. Con le vicine di casa gli abbiamo organizzato una piccola cena
di compleanno con torta e regalo: lo guardavo e pensavo a lui, la sua vita, i
suoi quasi 10 anni di astensione dalla vita sociale ed affettiva… spero che il
contatto con queste persone incontrate all’uscita dal San Pedro, con i
volontari presenti a Caranavi, con me (che l’ho mazziato diverse volte, anche
con durezza, ma con affetto) che lo abbiamo apprezzato, valorizzato e coccolato
in questa fase di transizione dall’uscita dal carcere al rientro in patria,
abbia “lavorato” dentro di lui, come una spinta , una motivazione alla fiducia
in se stesso e nella vita, nella possibilità di una vita semplice e felice…
Stamattina sveglia alle 5:00 per andare all’aeroporto. Dopo il
check-inn e la faccia stranita della operatrice al vedere il suo “Mandamento de
libertad” insieme al suo passaporto speciale di viaggio, ci siamo bevuti un
caffè prima della partenza… tanti desideri, tante emozioni espresse, tante
lacrime insieme.
L’abbraccio al gate è stato interminabile… il tempo si è
fermato tutt’intorno, e ha catturato solo i nostri sguardi bagnati dalle lacrime… nove
anni di conoscenza, convivenza, affetto racchiusi in 4 braccia che si stringono
e si accarezzano rassicurandosi a vicenda… Le mie: “Sarà durissima, ma so che
ce la farai!”, le sue: “Non preoccuparti, ce la voglio fare e ce la farò!”
“Dai Juan, adesso vai!”
“Sì, vado!”
Non si volta indietro, Juan…
la luce in fondo al tunnel, la vita, è davanti. Dietro c’è il tunnel buio dell’isolamento
e della solitudine, il passato e
tutti i suoi errori…
Una gravidanza di 9 anni, un parto doloroso, ma anche una
rinascita, che aspetta solo di
esprimere una vita che ha ancora tanto, ma tanto da dare!
Ciao Juan, amico, compagno e insegnate inaspettato… con le
lacrime agli occhi e il cuore carico di emozione ti auguro di ritrovarti, di
esprimere tutto quello che sei veramente e di gioire della vita che, nonostante
le tante difficoltà è sempre un grande tesoro, una avventura, mistero da scoprire!