lunedì 13 marzo 2017

Juan è partito

di Barbara Magalotti





Ho ancora le lacrime agli occhi e un nodo alla gola che è un misto di felicità e nostalgia… Juan, il nostro caro Juan del San Pedro  è partito. L’ho accompagnato all’aeroporto per prendere l’aereo che lo riporterà  alla sua  amata Lisbona…dopo 9 anni di detenzione al San Pedro.

Poco più di un mese fa, alle 21,00 una telefonata di Miguel, il nostro cuidador del Kinder “Barbara!!! Juan sta uscendo adesso! Lo hanno chiamato alla porta!!!” 
“Miguel, corri da lui e digli che arrivo in 10 minuti!!!” 
Prendo una giacca qualsiasi, mi metto le scarpe di corsa, mi infilo il cappello di lana  e già nel vicolo di casa mi accorgo che ho il pigiama (machissenefrega!) e la sciarpa che penzola strisciando sulla strada e facendomi quasi inciampare, mi fiondo a prendere un taxi… Non posso pensare che dopo 9 anni di carcere non ci sia nessuno ad aspettarlo fuori dalla porta di quelle 4 mura…

Il poliziotto di guardia si accende una sigaretta e  mi guarda divertito dalla mia mise casalinga/notturna… ed ecco che spunta dalla porta Juan… un pulcino rinsecchito, intirizzito dal freddo, senza neanche una borsa con le poche cose che solitamente i detenuti custodiscono gelosamente per il momento dell’uscita… solo le sue mani in tasca e uno sguardo stranito dal traffico notturno… un sorriso timido e stanco. Camminiamo per arrivare a casa e chiacchieriamo tanto… la coincidenza vuole che a casa ho ospite una amica portoghese con il suo ragazzo, di passaggio a La Paz. Juan è timido e quasi “paralizzato” mentre gli verso un bicchiere di vino… Rita comincia a parlargli in portoghese e il nodo piano piano si comincia a sciogliere…

La burocrazia per il rimpatrio è lunga e il console del Portogallo mi dice che ci vorrà almeno un mese per preparare tutto e mettere d’accordo l’ambasciata portoghese a Lima e l’ufficio dell’immigrazione per preparare il passaporto speciale d’emergenza. Parlo con Juan, gli ricordo del nostro progetto nella selva e lui immediatamente mi dice “Portami a Caranavi al terreno, non voglio stare a La Paz! Voglio fare qualcosa di utile in questo mese di attesa”. Detto, fatto!

Come descrivere questo mese di libertà così intenso? Il viaggio a Caranavi, la convivenza nella selva, le sere a chiacchierare sotto le stelle e a fare considerazioni sul senso della vita e del futuro, il lavoro duro e instancabile di Juan con la terra e per la costruzione della cucina da campo, le risate folli per cose assolutamente normalissime (ma specialissime dopo 9 anni di isolamento…), le discussioni e le alzate di testa, gli abbracci e le lacrime quando i ricordi del carcere si fanno cupi e dolorosi e  i desideri e le paure per il futuro si agitano troppo nel profondo… il gatto che scappa mentre lo portiamo dal veterinario e si rifugia nell’unica gioielleria di Caranavi… e la padrona del negozio che non crede alle nostre richieste di cercarlo dentro al negozio, perché crede che siamo dei ladri che si sono inventati la scusa del gatto per entrare a rubare (certo… io e due tipi loschi tutti sporchi, puzzolenti e arruffati… ma cosa pensavamo??? Ahahahahaha!!! Una situazione da morire dalle risate!!! Avrei voluto avere una telecamera!!!!).

Una sera, dopo cena, sotto una stupenda, incredibile coperta di stelle e la luna piena,  ci fumiamo la nostra solita sigaretta del  “pre-buona notte” sulla panchina della casetta di legno dove dormono Juan e Luis (un ragazzo in terapia per alcolismo alla comunità di Alto Beni della Comunità Papa Giovanni XXIII, che ha fatto una esperienza di scambio con il nostro progetto per 15 giorni) chiedo a Juan: “Cosa pensi di questo posto Juan? Credi sia adeguato per chi esce dal carcere? L’opinione di un ex detenuto è molto importante e credo sia fondamentale per capire i passi da intraprendere… la tua opinione mi serve perché vorrei capire se stiamo andando nella direzione giusta, se tutto questo lavoro e questi sforzi ci stiano portando verso una meta utile …”   
“Barbara, questo posto è meraviglioso, e nonostante la difficoltà ambientale, i mosquitos, il caldo e il lavoro duro, personalmente stare qua mi sta facendo vedere e capire quali sono le cose importanti nella vita. Il lavoro duro serve molto per scaricare i nervi e capire i miei limiti e le mie risorse fisiche e anche le mie riserve di di pazienza e di umiltà. Questa natura così totale mi fa sentire un senso di libertà, e un sentimento di «gratitudine» e rispetto verso la Terra, che non avevo mai provato prima. Anche vivere con te e i volontari, e le persone che passano di qui per il progetto, mi sta facendo guardare la vita in tutta un’altra prospettiva da quella che anche solo ieri avevo pensato…questo posto  ha delle potenzialità molto grandi con gli ex detenuti! Certo, non va bene per tutti, ma per molte persone del San Pedro, sarebbe una esperienza molto utile e importante per riprendere in mano la vita e guardare al futuro in una maniera differente.” 
L’emozione per queste parole dette di getto è grande…sono commossa e anche un po’ rassicurata; a volte mi chiedo se tutto questo lavoro e questi passi fatti con grande impegno e fatica siano nella direzione giusta… e  Juan con le sue considerazioni mi ha dato un bel feed bak positivo!

Parliamo tanto nelle notti a Caranavi: i 9 anni al San Pedro sono stati molto duri, in tanti anni non ha ricevuto nemmeno una visita. Ha passato 9 anni senza mai vedere nessun conoscente. Le uniche persone che si ricordavano di lui eravamo io e i volontari di Laboratorio Solidale. Cazzo, 9 anni senza relazioni umane significative! Un isolamento sociale straziante. Non riesco ad immaginare tanta deprivazione emozionale/affettiva. Juan mi racconta del suo dolore, del suo auto-isolamento, del suo consumo di sostanze (soprattutto la pasta base) per sopportare la solitudine e il senso di colpa, ma anche della sua forza e della sua grande fede. Entrare in carcere in Bolivia a 30 anni appena compiuti e sapere di non uscirne almeno per 8 anni che diventano quasi  9… vuol dire decidere di morire o di sopravvivere nel senso più assoluto del termine. E mi racconta dei 6 anni passati in “Sin Sección”, in stanzoni dove decine di detenuti sono ammassati e dormono rannicchiati alla male-peggio, dove non riesci a prendere sonno per il prurito causato dalle pulci, per il puzzo di vomito o di diarrea di chi sta male (non c’era il bagno…) e poi la decisione di andare a dormire negli androni e i vicoli all’aperto del carcere, perché lì, nonostante il freddo degli inverni a 4000 metri di altezza, almeno si era all’aria aperta e se avevi una coperta riuscivi a prendere sonno… Juan però ha sempre avuto il rispetto dei detenuti, perché era uno che si faceva gli affari suoi, che sapeva lavorare e guadagnarsi da vivere e in carcere ha imparato a fare di tutto: lavori da idraulico, elettricista, muratore,  e ha messo in pratica le sue competenze come falegname e artigiano. Il capitolo più doloroso dei suoi racconti è quello relativo alla relazione con suo figlio… un bimbo che ha lasciato a 5 anni e che ora ha 14 anni: 9 anni in cui lui come padre è scomparso e che suo figlio ha registrato come un abbandono… Ascolto i suoi racconti, guardo le sue espressioni, i suoi occhi profondi,  e sento dentro tutto il suo desiderio di ricominciare e tutta la sua paura di non farcela e non posso fare a meno di commuovermi…

Lo metto in guardia e un po’ duramente gli faccio presente che deve aspettarsi di tutto da suo figlio, dalla rabbia al rifiuto, all’aggressività… deve essere pronto a tutto, ma anche risoluto nell’essere talmente umile da accettare tutto quello che gli arriverà, e talmente determinato e forte da ricostruire pezzettino a pezzettino la sua relazione con suo figlio, partendo prima di tutto da sé stesso. Primo passo “Assumersi la responsabilità delle sue azioni”, secondo passo “Perdonarsi”, terzo passo “Ripartire da zero e cominciare una vita nuova” per sé stesso,  per poi ricostruire un rapporto nuovo con suo figlio. Una sera Juan mi dice: “Oggi mentre ero al fiume a sciacquare le scarpe, pensavo e pensavo e pensavo, pensavo che avevo una vita bella e che non ho saputo apprezzarla, avevo tutto quello che può rendere felice: una donna speciale e fantastica che amavo e che mi amava, un figlio adorato, un buon lavoro, la casa che era il nostro nido, ma cosa cazzo cercavo facendo il narcotrafficante???” mi guarda come a chiedermi una risposta; lo guardo con gli occhi che mi si riempiono di lacrime e non riesco a parlare – ci abbracciamo forte forte: “Juan! Piano piano ti stai ritrovando! Sono tanto felice perché questi 9 anni non sono stati buttati al vento, ma come vedi, ti hanno fatto capire tante cose! Evidentemente ti serviva tutto questo per capire quello che non vuoi e sentire quello che è veramente importante per te! Adesso, e solo adesso sei pronto per vivere la tua vita fratello mio!”
Il  5 marzo Juan ha compiuto 39 anni. Con le vicine di casa gli abbiamo organizzato una piccola cena di compleanno con torta e regalo: lo guardavo e pensavo a lui, la sua vita, i suoi quasi 10 anni di astensione dalla vita sociale ed affettiva… spero che il contatto con queste persone incontrate all’uscita dal San Pedro, con i volontari presenti a Caranavi, con me (che l’ho mazziato diverse volte, anche con durezza, ma con affetto) che lo abbiamo apprezzato, valorizzato e coccolato in questa fase di transizione dall’uscita dal carcere al rientro in patria, abbia “lavorato” dentro di lui, come una spinta , una motivazione alla fiducia in se stesso e nella vita, nella possibilità di una vita semplice e felice…
Stamattina sveglia alle 5:00 per andare all’aeroporto. Dopo il check-inn e la faccia stranita della operatrice al vedere il suo “Mandamento de libertad” insieme al suo passaporto speciale di viaggio, ci siamo bevuti un caffè prima della partenza… tanti desideri, tante emozioni espresse, tante lacrime insieme.

L’abbraccio al gate è stato interminabile… il tempo si è fermato tutt’intorno, e ha catturato solo i nostri sguardi bagnati dalle lacrime… nove anni di conoscenza, convivenza, affetto racchiusi in 4 braccia che si stringono e si accarezzano rassicurandosi a vicenda… Le mie: “Sarà durissima, ma so che ce la farai!”, le sue: “Non preoccuparti, ce la voglio fare e ce la farò!”

“Dai Juan, adesso vai!” 
“Sì, vado!”
Non si volta indietro, Juan… la luce in fondo al tunnel, la vita, è davanti. Dietro c’è il tunnel buio dell’isolamento e della solitudine, il passato e tutti i suoi errori…

Una gravidanza di 9 anni, un parto doloroso, ma anche una rinascita,  che aspetta solo di esprimere una vita che ha ancora tanto, ma tanto da dare!

Ciao Juan, amico, compagno e insegnate inaspettato… con le lacrime agli occhi e il cuore carico di emozione ti auguro di ritrovarti, di esprimere tutto quello che sei veramente e di gioire della vita che, nonostante le tante difficoltà è sempre un grande tesoro, una avventura, mistero da scoprire!



Ultime ore del 2016…

di Barbara Magalotti




… e come tanti, mi metto a fare bilanci, a trovare il bandolo dei perché e dei percome di tante difficoltà, e chissà, forse solo oggi trovo il senso di quest’anno nero, difficile e intricato…
I due mesi appena passati sono stati intrisi di attività e lavoro, tra San Pedro, Caranavi e la interminabile burocrazia necessaria a portare avanti i progetti… tanto che davvero non ho avuto un momento per fermarmi e scrivere le mie impressioni, le mie sensazioni…
E dentro al San Pedro ancora una volta trovo quella luce e quel calore di cui avevo necessità… nonostante i tanti report che devo ancora ultimare, la burocrazia assassina che mi attanaglia, tutti i giorni vado a fare un salto al carcere, soprattutto perché durante la chiusura per le vacanze, come sempre, è tempo di pulizie, ordine e ristrutturazioni varie per il centro educativo… 


Per fare spazio nel Kinder, ho deciso di fare la distribuzione di tutti i vestiti che mi hanno portato amici, ex volontari e associazioni varie….dunque oggi grande “MERCATINO DEL REGALO DI FINE ANNO” presso il Kinder… circa un centinaio di detenuti di “Sin Secciòn” (gli abbandonati totali del San Pedro) hanno creato una lunga fila davanti alla porta del centro educativo… Diossssss!!! Erano tantissimi!!! “E adesso, come facciamo???? La roba non basterà!!!” Pachuli era preoccupato e ansioso, ma io non mi faccio intimorire… “Dai, Dai, dai!!! Organizzazione!!!!”, con un gruppetto di detenuti della sezione abbiamo creato un “servizio d’ordine”, e ci siamo organizzati come nelle migliori manifestazioni da super-affollamento, tipo concerto allo stadio: chi stava alla porta a far passare solo 2 o 3 alla volta, chi segnava con un pennarello chi usciva con il suo capo d’abbigliamento, chi mi aiutava a far scegliere i vestiti ai detenuti… insomma, veramente una logistica impeccabile! E come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, ognuno ha portato via qualcosa: la cosa più bella era vedere uscire dal kinder i disgraziati di “Sin Secciòn” col sorriso stampato in faccia…il più tenero, è stato un ragazzo tutto tatuato, super lercio e puzzolente, che nonostante il freddo e la pioggia, non ha voluto prendere ne una maglione ne un pantalone, ma ha scelto una camicia e una cravatta “È per quando andrò alla mia udienza, voglio fare bella figura…” – mi ha fatto venire le lacrime agli occhi dalla tenerezza.
Gli abbracci di queste persone me li ricordo uno per uno… e me li custodisco nel cuore come l’augurio per questo 2017 che si avvicina e al quale chiedo solo questo: che dopo la tempesta e il terremoto emozionale, morale del 2016, mi porti gioia, quiete e pace …che mi porti alimento interiore e luce nell’anima, che mi indichi se il cammino che ho intrapreso è giusto o debba fare deviazioni o trovare sentieri alternativi…
Io sono qua, aperta e in ascolto!
Uscendo dal Kinder Jorge mi ferma e mi dice “Barbara, sei sempre di corsa… vieni a bere un caffè nella mia cella!”. Guardo l’orologio , le 12,10… massi’! Il cancello del carcere chiude alle 12,30, e devo ancora fare mille cose, ma un invito di cuore come questo non ha prezzo! Facciamo tante chiacchiere, io e Jorge – chissà, anche lui aveva bisogno di fare qualche bilancio, qualche “2+2” di quest’anno – ricordiamo le tante cose fatte da quando ho iniziato a lavorare al San Pedro; ricordiamo Padre Filippo, che ha dedicato 30 anni della sua vita alla Bolivia, tra cui 10 al San Pedro… e ad un certo punto Jorge mi dice “Barbara, ti conosco da tanti anni, e ti vedo sempre assolutamente dedicata alla causa non solo dei bambini, ma anche dei detenuti… sai, io credo nel Karma, e credo che stai portando avanti una missione molto importante. Io e tanti altri qua dentro lo sentiamo! Poi chi vuole capire capisce, ma tu stai solo guadagnando punti nel tuo destino karmico”… queste parole mi hanno toccata fino in fondo al cuore, soprattutto oggi, 31 dicembre 2016, un anno in cui, per tutto quello che mi è successo, mi sono sentita smarrita, mi son sentita perdere nelle fluttuazioni del destino, mi sono chiesta tante volte se il mio camminare, il mio agire, fosse giusto.

Ho le lacrime agli occhi e Jorge mi abbraccia “Sei una donna con le palle Barbara, qualunque cosa farai nella vita, so che sarà bello! Buon anno nuovo Barbara! Grazie di cuore!”
Non ho parole, solo un sorriso e le mie lacrime con il nodo alla gola.
Ciao 2016, mi hai portato tanto dolore, tante delusioni e tanta amarezza ma, come si dice, il dolore se non ti uccide ti rende più forte e saggio… e allora grazie anche a te, 2016, che con tutti questi scogli forse mi volevi spronare ad essere migliore!
Vi abbraccio tutti con le lacrime agli occhi e la speranza che questo 2017 sia un anno ricco di belle novità e soprattutto di nuovi orizzonti per tutti noi! In fondo sta solo a noi decidere il nostro cammino!

La vostra Barbara