Mi capita di svegliarmi la mattina e guardare l’orologio… è ancora presto e mi giro nelle coperte assaporando quel momento di veglia intorpidito, stropicciato, pigro caldo e accogliente… ancora i pensieri non sono ben chiari, ma la sensazione è bella, tutta fisica ed emotiva, una sorta di prolungamento cosciente del mondo dei sogni che piano piano si dissipa e mi conduce alla realtà… certamente mi dico, questo “dolce traghettamento” è possibile perché nel profondo mi sento “al sicuro” e le giornate rappresentano per me la concretizzazione dei miei obiettivi di vita. La vita apre un nuovo capitolo, che “leggo ed interpreto” con fiducia e senso di possibilità di affermazione del mio essere più profondo…
Una sensazione che tutti gli esseri umani dovrebbero avere il diritto di provare…
Al di là dalle alte mura del San Pedro come in tanti posti del mondo questa sensazione è una utopia, anzi, non è neppure quella. Non è neppure una idea che possa essere sognata, immaginata.
In catene non è solo il corpo, ma molto spesso lo è anche drammaticamente l’emozione. La dimensione spazio-temporale ha dei connotati completamente diversi da quelli che percepiamo noi “al di qua delle sbarre”. Il recinto penitenziario diventa una sorta di “limbo” dove i minuti, le ore, i giorni, gli anni sono tutti uguali, gli uni agli altri, sospesi in uno spazio tra il mondo interiore e la realtà esterna…
Per chi, come per molti detenuti, il carcere è la conseguenza logica delle proprie azioni illegali/criminali, il tempo della pena è una condanna parzialmente accettabile. Una causa ha provocato un effetto. E nonostante l’indubbia frustrazione, c’è però una certa accettazione della propria condizione.
C’è però anche chi dentro al carcere c’è finito “per errore”, o ancor peggio perché qualcuno “dall’alto del suo potere” ha deciso che proprio quella persona dovesse diventare l’esempio per “educarne altri 100 come lui”. È il caso dei prigionieri politici. È il caso di J., accusato di terrorismo per aver fatto (presumibilmente) saltare in aria un gasdotto nel 2008. Non ci sono prove, non ci sono testimoni, ma J. è in carcere dall’ottobre del 2008 (ad oggi più di 40 mesi) in detenzione preventiva, in attesa che lo Stato produca le prove della sua presunta colpevolezza. J., come tutti i giorni, era andato al lavoro a Villamontes (vicino a Tarija, al Sud della Bolivia) quando sono venuti a prenderlo: incappucciato, picchiato e caricato sul primo aereo per La Paz, catapultato al carcere San Pedro… lui che a La Paz non era mai stato in vita sua… orribile, tragico, inaccettabile. L’unica colpa di J. è quella di aver militato per l’opposizione e aver preso parte a manifestazioni di strada contro le scelte politiche del governo Morales.
Dal suo ingresso in carcere, dopo la prima udienza che sanciva la detenzione preventiva (per pericolo di fuga e occultamento di prove), gli sono state negate le udienze in tribunale che gli spettavano di diritto. Per più di due anni il suo avvocato ha tentato di ottenere la sua scarcerazione appellandosi alla mancanza di prove, ma il governo ha respinto ogni richiesta, non facendo sapere nulla in merito alle udienze...un silenzio totale durato più di 2 anni… nel momento in cui veniva incarcerato J., la legge prevedeva 2 anni di detenzione preventiva. Ma lui di carcere ne ha fatto 3 anni e mezzo, perché nel frattempo la legge è cambiata (da 2 a 3 anni di detenzione preventiva, durante i quali lo stato può fare indagini e raccogliere prove…). Altro diritto leso per J., visto che la legge in questione non è retroattiva, e dunque lo Stato non aveva alcun diritto di detenerlo oltre i 24 mesi stabiliti nel momento del suo arresto.
Questo febbraio, dopo 2 anni e mezzo senza aver visto in faccia un giudice o gli avvocati dell’accusa, finalmente arriva per J. la possibilità di dibattere in aula le proprie ragioni. È nervoso J., ma contento. Finalmente può gridare (attraverso il suo avvocato) i suoi diritti violati, ed è sicuro di uscire, “di cantargliele” a suon di fatti. Sono contenta, emozionata, intimorita… è importante che J. non si senta solo in questo momento e decido di accompagnarlo, partecipando all’udienza insieme a Giovanni e Padre Filippo.
Un vero e proprio calvario…
Prima udienza 15 febbraio 2012. La prima udienza è stata sospesa perché secondo l’accusa, la segretaria del tribunale ha scritto male il numero del protocollo (!!!) e dunque l’udienza non sarebbe stata valida. Prima bastonata per J., che non può credere alle sue orecchie… come noi del resto. Ascolto le parole del giudice e le lacrime mi escono dagli occhi senza poterle fermare…
Rimandata al 24 febbraio 2012. La seconda udienza viene sospesa perché è assente l’accusa. Seconda bastonata per tutti, momento in cui ci rendiamo veramente conto della manipolazione politica di questo processo… sento forte la paura che veramente J. non riuscirà a sconfiggere il sistema legale statale… incredula, stordita da tanta ingiustizia.
Rimandata al 28 febbraio. La terza finalmente viene dibattuta. L’avvocato di J. è molto in gamba e sottolinea come l’unica accusa contro J. è costituita da un presunto “testimone fantasma” che mai ha rilasciato una dichiarazione, perché sostiene di essere in pericolo di vita: ovvero, J. è in carcere da 3 anni e mezzo perché una persona di cui non si sa il nome e mai si saprà, dice di essere a conoscenza di fatti che incriminerebbero J., ma dei quali non c’è nessuna dichiarazione scritta in nessun verbale, ne della polizia, ne degli avvocati dell’accusa (!!!). Dopo un lungo dibattimento in cui l’avvocato della difesa nella sua arringa evidenzia come i diritti legali e umani di J. siano stati violati evidentemente, l’accusa ribalta la frittata e accusa J. di essere l’unico responsabile per il grave ritardo nella conduzione delle indagini: visto che per ben 14 volte ha rifiutato di essere processato rifiutando la commissione che era stata assegnata. È vero: ma 14 volte gli era stata assegnata una commissione in cui i membri avevano un evidente pregiudizio politico (e sottomissione agli ordini superiori). 14 volte in un solo mese. Vale a dire che al massimo, il ritardo causato dal rifiuto della commissione giudicante da parte di J., è di un mese. Qui si parla di un ritardo di un anno e mezzo, passato in carcere ingiustamente, senza prove di colpevolezza… L’udienza si conclude con il giudice che sancisce a voce alta che “la corte nega all’imputato la scarcerazione”. Questa volta non c’è nemmeno un limite stabilito, entro il quale l’accusa deve raccogliere prove. Di nuovo dentro, per un tempo indefinito… J. si mette la testa tra le mani e rimane in silenzio, mentre qualche lacrima gli sfugge al controllo… So cosa sta pensando, perché nei suoi momenti di sconforto spesso me lo ha detto: “Ho paura che da qui non uscirò mai.”
Lasciamo l’aula di tribunale e mentre abbraccio J., prima che il poliziotto di sorveglianza gli rimetta le manette, mi scorrono davanti i tanti momenti passati insieme a lui al San Pedro in questi anni: le domeniche a messa, mentre canta le canzoni suonando la chitarra come se si stesse esibendo in teatro e mi lancia occhiate complici per capire se ha cantato bene o no; durante i pranzi del sabato, mentre tiene banco con le sue barzellette sconce facendo fare grasse risate a tutti i commensali; nella sua cella mentre ci beviamo il nostro consueto mate e chiacchieriamo per ore raccontandoci a vicenda le nostre storie, a volte piangendo insieme e abbracciandoci con affetto… Per me J. è un grande amico. Il suo dolore, il suo sconforto, la sua disperazione di certi giorni mi lacera nel profondo. E la sua detenzione è per me un dolore forte, una ferita al mio senso di giustizia ed uguaglianza che quotidianamente si riapre e non si rimargina. A volte mi sembra di assistere in prima persona a un film drammatico, ma questa, proprio questa, è la realtà vera.
Mi capita di svegliarmi la mattina e guardare l’orologio… e mi chiedo perché J. (e i milioni di J. nel mondo) non debba poter avere il mio stesso diritto a godere di quella bella sensazione del risveglio, e di poter guardare al nuovo giorno con fiducia e senso di possibilità di espressione del suo essere più profondo… di poter vedere nel tempo che passa, la realizzazione dei suoi obiettivi, la materializzazione dei suoi sogni, e non l’immobilizzazione della propria vita, il limbo stagnante delle proprie emozioni imbavagliate dall’ingiustizia…
… ringrazio tutti i giorni per la mia libertà, e prego per quella di tutti gli esseri umani.
Vi abbraccio tutti, con affetto.
Barbara
barbara, mi hai fatto piangere...non solo hai il dono di riuscire a vivere e portare avanti quotidianamente questa tua unica strada di vita, ma anche di saperla raccontare e condividerla con gli altri tramite i tuoi racconti.... scrivi di piu', scrivi ogni giorno, scrivi un libro, fai dei video... questa tua esperienza merita di essere condivisa! grazie,gracias, thank you, merci, angy
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